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Monastero di San Vincenzo - Il Chronicon Vulturnenze

IL CHRONICON VULTURNENZE

Risale alla metà del XII secolo. A scriverlo fu il monaco Giovanni con altri confratelli. Si tratta di un documento che ricostruisce la vita della città monastica di San Vincenzo al Volturno dopo la distruzione saracena e la ricostruzione nei secoli X – XII, quando cioè la comunità viveva nel nuovo monastero sulla destra del fiume. È conservato presso la Biblioteca Vaticana con la segnatura “Barb. lat. 2724”. Danneggiato dal tempo e dai passaggi da un luogo all’altro nei secoli, è stato restaurato a cura dell’Istituto Regionale per gli Studi Storici del Molise nei primi anni del 1990. Il Chronicon rimase a San Vincenzo fino alla seconda metà del XVI secolo. Cesare Costa, commendatario, lo salvò quando la biblioteca monastica andò in rovina. In seguito, Camillo Castani, abate commendatario, portò il manoscritto a Napoli e successivamente a Roma. Nel 1601 fu prestato a Costantino Castani, monaco a Montecassino e fondatore della biblioteca Aniciana. Nel 1685 entrò a far parte della Biblioteca dei Barberini, dove rimase per oltre due secoli sotto la segnatura XXXIV, 41. Nel 1902 passò alla Biblioteca Vaticana unitamente agli altri codici della biblioteca Barberiniana.
Caratteristiche. Dimensioni, cm 32,6x 19,5; fogli di pergamena n. 341; scrittura beneventana di tipo cassinese. È finemente decorato e riccamente illustrato con 37 miniature, 2 grafici e 29 figure di abati. Alcuni capitoli furono tradotti da Marco D’Agostino all’inizio degli anni ’90 su incarico dell’Istituto Regionale per gli Studi Storici del Molise. Il completamento è stato curato dalla professoressa Luisa De Luca Roberti per conto dell’associazione “Amici di San Vincenzo”, presieduta dal dottor Dino Ricci, ed è in corso di stampa con il contributo della Regione Molise.


Dal “IL CHRONICON VULTURNENZE”
STORIA DEI NOVECENTO MONACI DECAPITATI DI QUESTO MONASTERO

Dopo che la malvagia gente degli Agareni, depredando, incendiando e mandando in rovina le altre regioni della terra, le ha completamente distrutte, la scellerata turba degli empi, le cui mani minacciano tutti, non ancora sazia di sangue umano, più malvagia di qualunque fiera, avanza infuriata verso il sacro cenobio del prezioso martire Vincenzo. Era allora abitudine dei monaci di entrambi i cenobi del Beatissimo Vincenzo e del Santissimo Benedetto farsi visita a vicenda, per amore di carità. Mentre un giorno, dunque, alcuni fratelli del monastero di Cassino si erano incamminati, come erano soliti, verso il predetto cenobio, e parlavano vicendevolmente del loro ordine, improvvisamente giunse lì il crudelissimo Saugdan, con i suoi seguaci. Udita la notizia, i monaci, che erano giunti a un castello vicino allo stesso monastero, affrettato il passo, sebbene molto spaventati, tuttavia riuscirono a porsi in salvo incolumi. Quando ciò fu appreso dai servi di Dio nel monastero, subito provvidero a nascondere tutto il tesoro della Chiesa. Essi, non atterriti dalla paura, ma fermi e intrepidi, esortandosi a vicenda, lasciati soltanto pochi anziani venerabili per età e vita a sostegno della chiesa, andarono, con la propria servitù, incontro ai pagani che avanzavano.gli uni e gli altri giunsero contemporaneamente nel luogo presso il Ponte, chiamato Marmoreo. (Gli Arabi) cercavano infatti il cammino attraverso il quale giungere al monastero. Pertanto, una volta che gli uni si furono fermati da una parte e gli altri dall’altra, iniziò tra di loro una battaglia feroce, nel corso della quale molti dei nemici vennero messi fuori combattimento. E infatti i nemici non riuscivano a farsi strada tra i nostri, poiché essi con sassi o qualsiasi arma si trovassero fra le mani, respingevano lontano i malvagi, e la densa selva e le strette rupi, prestavano aiuto alle loro braccia. Non gelido sangue aveva stretto le vene gonfie. Infatti con valorosa battaglia abbreviamo il giorno più di quanto a questi o a quelli fosse necessario sostenere. Sono bandite le spade, sono scagliate lance, sbarre ai duri cespugli rimanevano attaccate le spoglie del ladro. Ma perché indugio a riferire a lungo i crudeli crimini che compì la mano volgare dell’esercito degli iniqui? A un certo punto, alcuni tra i servi del sacro monastero, sentendosi affaticati dalla lunga battaglia, (che si protraeva) perché con la protezione della grazia divina non era data ai nemici alcuna possibilità di passare, e per di più le schiere dei tiranni erano prostrate assai duramente, abbandonando i loro signori, si allontanarono di nascosto, e lasciati quelli in battaglia, si recarono dal re dei Saraceni, e chiedendogli (salve) la libertà e la vita, dissero di poter fornire un risultato più vantaggioso e una vittoria di maggior valore. Subito egli rallegrandosi, allettando l’animo dei servi con doni aurei e funeste persuasioni, li incita ad adempiere le promesse. Dunque, accettato l’impegno, e stabilito il patto, divenuti malvagi condottieri degli empi, all’insaputa dei loro padroni, una grandissima parte dei nemici, percorrendo un diverso itinerario, improvvisamente piombò sul sacro monastero, e circondandolo da ogni parte lo diede alle fiamme, trucidando anche i suoi uomini che ivi furono trovati. È visibile infatti il sangue dei santi monaci versato per Cristo, che mostra ancor oggi evidenti segni, essendone coperti e cosparsi i sassi e le pietre delle pareti e dei pavimenti della stessa chiesa. Subito dopo, mentre vortici di fiamme salivano a incendiare le alte costellazioni celesti, (i monaci) che, prostrati dalla lunga battaglia, nello spazio di un giorno avevano compiuto un grande sforzo in un leale certame, si resero a un certo momento conto di essere stati traditi, e subito furono attaccati alle spalle dalla schiera di servi che facevano ritorno al monastero. Mentre, voltatisi, cercavano di resistere, le schiere vennero a contatto, e si produsse la terribile sciagura di un combattimento fratricida. E mentre quelli incalzano con passo rapido, e questi si sforzano di muoversi in senso opposto, si raggiunge infine un luogo che, per una certa estensione, appariva alquanto pianeggiante, e che ancora oggi prende nome, presso la gente del luogo, dai corpi che furono mutilati. Tutte le lance sono rivolte verso di loro. E nell’accorrere dell’intera schiera dei nemici, con membra spossate dalla stanchezza, (i monaci) non riescono più a resistere a lungo. Si gettano tra i colpi dei carnefici. E sebbene molti fra i pagani fossero stati abbattuti, tuttavia di loro rimasero pochi superstiti. Ma fu preferibile essere uccisi con la spada che essere presi prigionieri. Infine, compiuta la strage, quando si radunarono tutti insieme scavando qui e lì secondo le indicazioni dei servi, (i Saraceni) trovarono l’intero tesoro della chiesa, che i servi di Dio avevano precedentemente nascosto, proprio temendo che cadesse nelle loro mani. E dopo esserselo spartito come bottino, devastarono ogni cosa, distrussero la maggior parte dei beni, dispersero il frumento e i legumi nel fiume che scorre lì presso. E quando ormai quasi esultanti dopo la fatica e il trionfo, si abbandonarono al riposo, lo scelleratissimo Saugdan bevevo nei sacri calici e ordinava che lo si incensasse turiboli d’oro. Questa dei monaci beati per Cristo fu compiuta il 10 ottobre, martedì, alla seconda ora del giorno, mentre correva già l’anno centosessantacinquesimo dalla costruzione dello stesso monastero.

FONTE: Il Chronicon Vulturnenze


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